Resilienza. Maratona di Roma: un’esperienza diretta

Maratona di Roma e resilienza

Sono le 5.00 del mattino, fuori piove molto forte e le gocce, battendo contro il vetro, mi svegliano. Non è una semplice pioggerella, ma un vero e proprio acquazzone. Ho il sonno leggero anche perché non dormo nel mio letto e sono a più di cinquecento chilometri da casa. Fra poche ore farò la mia prima maratona. Cerco di allontanare la preoccupazione e mi giro su un fianco pensando che se la pioggia cade tutta adesso, forse alle nove quando ci sarà la partenza, non ce ne sarà più. Invece alle sette quando mi alzo, Roma è grigia e la pioggia continua a cadere anche se meno intensamente di prima.

La mia prima maratona sarà sotto la pioggia, ma questo non mi preoccupa. A preoccuparmi è il mio ginocchio che, da un mese a questa parte, ha iniziato a darmi fastidio. Non posso dirmi e non posso dire a nessuno che mi fa male. Giusto tre giorni fa ho dovuto fermarmi dopo dodici chilometri e l’ultimo chilometro l’ho fatto camminando. Non posso pensare che dopo mesi di sacrifici, di freddo, di fatica, ora, arrivato al giorno fatidico, potrei ritirarmi dopo una decina di chilometri. Cerco di non pensare al peggio e mi preparo. Per questa esperienza devo ringraziare tante persone, prima tra tutte Elena che mi ha gentilmente lasciato la sua casa di Roma, che mi è servita come base logistica. E’ una casa che non ho mai visto e lei non c’è, quindi non so come muovermi e dove cercare le semplici cose che mi servono per prepararmi un caffè; così mi ritrovo già in ritardo sulla mia tabella di marcia. Mi accorgo d’essere già in ansia e non riesco a capire come vestirmi per correre, non riesco a capire se fa freddo o caldo se continuerà a piovere oppure no o se verrà a piovere come ha fatto durante la notte. Il mio pensiero ritorna al mio ginocchio mentre lo friziono con una crema e mi ritorna in mente la faccia della farmacista che me l’ha venduta. Una faccia tutt’altro che rassicurante quando le avevo detto cosa andavo a fare da lì a tre giorni. Non ci penso e mi ritrovo fuori a correre dietro al tram che mi passa davanti appena esco da un bar dopo aver fatto colazione. Mi metto già alla prova ed il ginocchio non mi fa male, poi penso che se mi dovesse fare male per fare cento metri sarebbe meglio ritornarsene a casa. D’altronde, mi rassicura il fatto che sono in orario; dovrei arrivare in tempo per consegnare lo zaino e forse riesco anche a fare qualche minuto di stretching. Invece arrivo giusto in tempo per consegnare lo zaino e infilarmi un uno dei cancelli lungo Via dei Fori Imperiali, ritrovandomi tra i quindicimila podisti giunti da tutto il mondo per la XXI maratona di Roma. Devo anche trovare Stefano e Roberto che mi hanno accompagnato in questa impresa ma capisco che ora è troppo tardi. Mi guardo attorno mentre la folla multicolore e multilingua con passo lento mi spinge verso la partenza. Passo sotto la partenza dopo quattro minuti dall’inizio della maratona e mi rendo conto che nemmeno mi ero accorto che era iniziata. Un urlo liberatorio passando sotto la partenza ed inizio a correre. Inizio ad un ritmo lentissimo sapendo che ora l’unica cosa da fare è ritornare lì, in un modo o in un altro, ma sicuramente con le mie gambe.

La pioggia continua a cadere con una certa intensità, mi guardo attorno e mi colpisce vedere che ci sono poche persone ad incitarci. Questo mi rattrista ma poi penso che la giornata non è favorevole nemmeno per i supporters. Corro e sto molto attento ad ogni avvisaglia di fastidio al ginocchio che nell’ultimo mese mi ha accompagnato soprattutto quando facevo gli allenamenti lunghi da venticinque o trenta chilometri. Perché la maratona in sé è solo una grande festa. La vera maratona inizia quando decidi di farla. Quando per qualche motivo ti viene questa idea, inizi ad allenarti e sai che lo dovrai fare per mesi. Imposti una tabella d’allenamento ben precisa che culminerà con questa grande festa che è la gara. La vera maratona invece si svolge assolutamente in modo privato mentre durante tutto l’inverno, quando esci a correre col buio ed il freddo almeno tre sere alla settimana chiedendoti senza risponderti, perché lo stai facendo, se ci riuscirai e come sarà la gara. Per questo devo anche ringraziare un’altra Elena, la mia compagna, che, non so con quanta voglia, mi ha seguito in bicicletta molte domeniche durante i miei allenamenti.

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Mentre continuo a pensare a cosa sto facendo e a guardare se vedo Stefano o Roberto, mi accorgo che sono già arrivato al sesto chilometro e sto bene. La mia mente inizia a fare calcoli inutili e controproducenti pensando che devo fare sei volte la stessa distanza. Viaggiando con la mente come se fossi salito su un cavallo al galoppo, senza accorgermi, arrivo all’ottavo chilometro. Il mio ginocchio inizia a darmi fastidio. Il tutto dovuto al passaggio sopra il ponte Marconi dove tira un vento freddo e la pioggia si fa sentire bene. Realizzo che anche i giorni precedenti all’ottavo chilometro il ginocchio iniziava a dire basta. Inizio a mettere in atto tutta una serie di esercizi mentali di spostamento dell’attenzione; in fin dei conti sono un ipnoterapeuta e dovrei saperlo fare bene. Quasi per miracolo mi ritrovo al tredicesimo chilometro. Le gambe stanno benissimo ed il ginocchio non mi fa più male. Con piacere inizio a guardarmi attorno e vedo Castel Sant’Angelo mentre poco prima eravamo passati vicino all’Ara Pacis. Roma è sempre uno spettacolo, soprattutto quando non ci sono macchine a rovinare il paesaggio. Mi guardo attorno. La gente è sempre poca ma la pioggia ha iniziato a cadere con molta meno intensità. Ora il ginocchio non è più un problema ed inizio anche a gustarmi il panorama di una città che sta ancora dormendo e che si lascia osservare ed accarezzare dallo sguardo di quindicimila podisti intenti a ritornare allo stesso punto da cui sono partiti, dopo quarantadue chilometri e centonovantacinque metri di strada. Mi accorgerò solo alla fine di quanto saranno importanti gli ultimi centonovantacinque metri: sembrano infiniti e non bisogna mai sottovalutarli. Arrivo al ventunesimo chilometro in perfetta forma e felice d’essere arrivato a metà del percorso, in poco più di due ore ma, soprattutto, in forma. Mi sembra impossibile che il dolore non sia aumentato, anzi, sia scomparso. Sentendomi bene inizio ad aumentare il ritmo e mi accorgo che le persone che vedo davanti a me, dopo un po’ le raggiungo e le supero. Ottimo indizio di salute fisica che alimenta anche la psiche. Ora anche la pioggia ha smesso di cadere lasciando il posto ad un timido sole accompagnato da una leggera brezza, che mi sembra quasi calda. Mi ritrovo al trentesimo chilometro. D’ora in poi è tutto nuovo e non so come reagirà il mio fisico perché non ho mai superato il muro dei trenta chilometri. Ho sempre sentito dire che la maratona inizia dopo il trentesimo chilometro perché molti podisti da qui in poi si bloccano. Io la mia maratona la sto già vincendo: l’obiettivo primario era arrivare al trentesimo chilometro correndo, sapendo che dopo potrebbe succedere di tutto ma non il ritiro.

Ora il mio obiettivo è arrivare al trentaduesimo chilometro ed iniziare a fare il conto alla rovescia, il fatidico countdown che mi porterà all’arrivo. Dopo il trentaduesimo chilometro faccio l’errore di fermarmi giusto un minuto in un punto ristoro. Mentre bevo un bicchiere d’acqua e mangio un pezzo di banana mi accorgo che il ginocchio mi fa malissimo e faccio fatica ad appoggiare il piede per terra. Non mi perdo d’animo ed inizio lentamente a camminare per poi riprendere a correre piano piano. Gli allenamenti mi hanno insegnato che non posso fermarmi, che lo devo tenere in movimento perché solo così non aumenta il dolore. Stringo i denti e dopo qualche centinaio di metri mi accorgo che il dolore si è stabilizzato ma ora mi fanno male la coscia destra e l’inguine sinistro. Non mi resta che correre piano piano ma non devo fermarmi. Sono ancora lontano dall’arrivo: mancano sette chilometri. Cosa sono sette chilometri? La mente non fa altro che prendere come paragone gli argini della città di Padova dove solitamente mi alleno e penso che in fin dei conti sono solo due argini andata e ritorno. Questo pensiero mi rasserena, perché è l’allenamento minimo che ho sempre fatto. Mentre penso a queste cose mi ritrovo al quarantesimo chilometro e faccio l’errore di pensare d’essere arrivato. Gli ultimi chilometri ma, soprattutto, gli ultimi duecento metri mi sono sembrati infiniti. Non scorderò mai la fatica di fare gli ultimi centonovantacinque metri. Quasi per caso scorgo la bandiera del quarantaduesimo chilometro e mi dico: “sei arrivato!”. Duecento metri possono essere infiniti quando l’unica cosa che vuoi è vedere l’arrivo e, invece, dietro ad ogni curva vedi solo un’altra curva. Pensi che ti stiano facendo uno scherzo e che ti stiano facendo fare più strada: duecento metri non possono essere così lunghi. Quando vedo l’arrivo mi sento leggero come una piuma. Il mio unico ricordo è stato vedere una ragazza vestita come nell’antica Roma con in mano delle medaglie, abbassare la testa per farmela infilare e sentire i complimenti. La mia prima maratona è finita. Vi faccio immaginare le condizioni delle mie gambe, che sinceramente non sentivo nemmeno. Per fortuna dopo solo mezz’ora avevo già ripreso le forze e mi sentivo molto meglio. Mentre aspettavo i miei amici è stato piacevolissimo vedere scene commoventi degli altri podisti che man mano arrivavano al sudatissimo traguardo.