Maratona di Treviso 2017..tanta resilienza

Maratona e resilienza

Com’è stata la mia seconda maratona? Se dovessi riassumerla in una parola sicuramente direi dolorosa. Ma partiamo dall’inizio. L’inizio, come la precedente maratona di Roma del 2015, è stato all’insegna della pioggia. A me piace correre sotto la pioggia, ma pensare di passare quattro ore a correre sotto la pioggia non è sicuramente divertente. Poi c’è pioggia e pioggia. Questa volta le previsioni erano: “pioggia consistente” come riportato dal sito “IlMeteo.it”. Per fortuna che la pioggia consistente è arrivata prima della partenza e la partenza è stata all’insegna di un cielo grigio plumbeo caratterizzato da una pioggia poco intensa.

La maratona di Treviso, che da un paio di anni parte e termina a Conegliano, non è una maratona famosa e per questo motivo eravamo relativamente in pochi. Domenica 5 Marzo mi sono trovato alla partenza con circa un migliaio di persone ad affrontare la mia seconda maratona pensando a come sarà ritornare allo stesso punto dopo aver percorso 42,195 Km di corsa.

A tenermi compagna prima della partenza c’era il mio amico e mentore Luca che, da bravo ed instancabile ultramaratoneta e triatleta, era venuto a fare giusto un allenamento fuori programma.

Prima ancora di iniziare a fare un po’ di stretching, ho visto che il serpentone multicolore, festoso e pieno di adrenalina della competizione era partito. Così ancora freddo ed un po’ bagnato ho iniziato a correre ed in un baleno mi sono trovato a tagliare la partenza.

La maratona era iniziata.

Mi ero promesso di tenere un ritmo vicino ai 6.30 minuti al Km e dopo qualche chilometro ho agganciato il pacemaker (persone che corrono con dei palloncini appesi alla maglia che tengono il ritmo costante per tutta la gara) delle 4 ore e 30 minuti.

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Mentre corro dietro a dei palloncini verdi (siamo ancora all’inizio della competizione) vedo davanti a me altri pacemaker e penso che siano quelli delle 4 ore. Forte del fatto che la prima maratona l’avevo terminata in 4 ore e 20 minuti, ho pensato che questa potevo finirla in 4 ore.

Il mio primo errore è stato non guardare bene il mio orologio che già stava segnando un ritmo più alto di quello che mi ero imposto. Per finire una maratona in 4 ore e 30 minuti, bisogna tenere un ritmo di 6.24 al chilometro senza contare le pause nei vari ristori.

Ma la gara è la gara e durante la gara dai tutto, quindi ho accelerato ed ho raggiunto i pacemaker che erano davanti a me scoprendo che non erano quelli delle 4 ore bensì quelli delle 4 ore e 15 minuti. Mi sono accorto molto velocemente che tenevano un ritmo di 5.50 minuti al chilometro. Questo avviene quando siamo ancora sotto i 10 chilometri e le gambe sono buone, fresche e hai ancora molta energia. Nel mio caso, inoltre, stavo bene anche se un leggero fastidio si stava insinuando dietro il polpaccio destro, dolore che non ho mai sentito in tutti questi mesi di allenamenti. Non mi sono preoccupato perché quando si corre è facile sentire vari dolori più o meno intensi. Tutti conoscono il dolore provocato dalla milza, ad esempio. Chi, invece, corre spesso e decide di farsi del male con le maratone, il dolore lo conosce bene. Perché è facilissimo che una caviglia, un ginocchio, ma potrei dire mille parti del corpo che nemmeno sappiamo di avere, inizino a farti male quando corri. Io questo piccolo nuovo fastidio non lo considero perché, come spesso succede, questi dolori passano. Preciso che non passano e basta. Passano perché altri dolori più intensi occupano la tua attenzione ed il dolore meno intenso viene soppiantato da uno più fastidioso. Mentre tengo il ritmo del mio nuovo gruppo, mi ritrovo già al sedicesimo chilometro ed il dolore è sotto controllo, il ritmo lo tengo molto bene, potrei anche andare più forte ma rimango con loro sapendo bene che la corsa è appena all’inizio.

Vorrei spendere due parole per decantare le lodi delle persone che fanno i pacemaker. Sono tutte persone che amano intensamente la corsa. Ad esempio, nel gruppo delle 4 ore e 15 minuti, c’era un uomo che era venuto a fare il pacemaker come preparazione per “I 100 km del Passatore”: una ultra maratona di 100 km che si svolge una volta all’anno a Maggio con partenza da Firenze ed arrivo a Faenza. Queste persone, oltre a tenere un ritmo gara costante, motivano, alleggeriscono con battute, si prendono e ti prendono in giro per tutta la gara, solo per rendere una cosa faticosa più divertente e simpatica. Sono veramente persone simpatiche che amano intensamente la corsa e le sfide. Posso solo fare i complimenti a tutti i pacemaker che ho conosciuto nella varie competizioni.

Mentre mi diverto con il gruppo mi trovo già al ventunesimo chilometro. Mi sembra impossibile che la corsa sia già al giro di boa, anche se il fastidio che provavo al polpaccio non se n’è andato, anzi si è fatto più intenso e da “fastidioso” è stato promosso a “dolore”. Forse ha anche lui ingaggiato una gara con gli altri dolori del mio corpo e vuole vincere la sua gara personale. Per il momento è sopportabile ma inizio un po’ a preoccuparmi perché dovrebbe essere già passato. Mentre i chilometri si susseguono, mi ritrovo al trentesimo chilometro e chi mi vedo davanti? Vedo il mio amico Luca che corre in assoluta tranquillità ed in un battibaleno lo superiamo. Nel momento del sorpasso lo saluto e lui si ferma, apparentemente per un bisogno fisiologico. Successivamente mi racconterà che era entrato in una bruttissima crisi che lo aveva stremato. Me la descriverà come una delle più brutte crisi mai vissute.  Luca è un altro che ha fatto il Passatore, una gara di Iron Man e moltissime altre gare spacca muscoli. Poi arriverà qualche minuto prima di me.

Lo saluto e lo supero seguendo il ritmo del mio gruppo che continua imperterrito a macinare i chilometri alla media di 5.50 minuti al chilometro.

Il mio polpaccio oramai ha iniziato a gridare vedetta e, di sicuro, ha vinto alla grande nei confronti di qualsiasi altro dolore. Arrivo al ristoro dei 35 chilometri e mi fermo un attimo a fare stretching. Nel frattempo arriva Luca mentre cerco di fare stretching. Niente. Dopo 35 chilometri mi serve una barella e non qualche secondo di stretching. Ad ogni movimento rischio i crampi. Non riesco a fare nulla. Il cervello è in fase di loop, da troppo tempo usa solo una serie di reti neuronali adibite alla corsa; tutto il resto non è più contemplato, anche il semplice flettere le gambe. Non mi resta che continuare. Stringere i denti non serve, l’ho fatto dal decimo chilometro, ora serve solo la voglia di arrivare. L’autoipnosi mi ha portato fin qui; ora devo trovare la vera grinta che mi piace pensare di avere. Ma non basta pensare di averla, ora bisogna veramente trovarla. Mi mancano sette chilometri. In questi casi penso quanti sono sette chilometri nei circuiti di allenamento casalinghi: niente! Mentre penso a tutto questo, vedo i diversi cartelloni a bordo strada che mi dicono che sono al 37, poi 38, poi 39 ed infine 40 chilometri. Non penso di dare un bello spettacolo. Non so se sto correndo, camminando, ridendo o piangendo dal dolore. So che mancano due chilometri e nessuno mi potrà tenere lontano dal traguardo. Il ristoro del quarantesimo chilometro lo mettono qualche centinaio di metri prima e la delusione di vedere successivamente il cartello 40 Km, pensando di averlo già superato, mi mette addosso un grande nervoso. “Ma che fate, ci prendete in giro?” Fare una maratona ti insegna che non ti devi affidare a nessuna certezza, tranne una: non è finita finché non è finita. Sembra una frase fatta ma è la verità. L’altra volta al cartello 42 Km mi dissi: “ecco, sono arrivato!”. Quei 195 metri me li ricordo come se fosse oggi: interminabili, eterni, infiniti. Non potevo crederci che 195 metri fossero così lunghi.

“Va bene! allora vuol dire che mi mancano ancora due chilometri e 195 metri” mi sono detto. “Non ci pensare e cerca il cartello successivo dove vedrai scritto 41 Km, perché poi te ne mancherà solamente uno”. Alla fine sono arrivato e, con mia grande sorpresa, prima del pacemaker delle 4 ore e 30 minuti. Ho smesso di zoppicare dopo cinque giorni.

Penserete: “bene, ora basta, considerato che la parola che definisce la tua seconda maratona è stata: dolore”. Invece mi è rimasta l’idea che, se avessi avuto più tempo per prepararla (se hai letto l’articolo della preparazione, sai perché non l’ho avuto), potevo benissimo finirla entro le 4 ore. Ecco, mi è rimasta la grande voglia di riprovarci, non più solo per finire la gara, ma anche per finirla nelle 4 ore. “Follia” mi dicono in molti, tutte persone che non corrono; per tutte le altre persone che si definiscono runners, una maratona è voglia di correre, di sentirsi vivi, di lasciarsi dietro tutto e tutti ma solo per incontrare il resto e gli altri davanti a te. In fin dei conti vivere non vuol dire andare avanti?